Losone, 23 agosto
2013
La libertà di espressione,
l’Islam e il Festival del
film
Il 2 novembre del 2004 il
regista olandese Theo van
Gogh venne barbaramente
assassinato da un
integralista islamico con la
doppia nazionalità
marocchina e olandese a
causa di un suo
cortometraggio della durata
di una decina di minuti,
intitolato “Submission”, nel
quale denunciava lo stato di
sottomissione della donna
nell’Islam. La sua
scenografa, che da allora
dovette vivere con la scorta
di polizia e che ha finito
con l’emigrare negli USA,
era la parlamentare liberale
di origine somala Ayaan
Hirsi Ali : una musulmana
che l’oppressione dell’Islam
sulle donne l’aveva
sperimentata sulla propria
pelle, come
aveva descritto nel
libro “La fabbrica dei
figli”.
Il 16 dicembre del 2004 un
gruppo di politici ticinesi
(Iris Canonica, Lorenzo
Quadri, lo scomparso Umberto
Marra, Giovanna De Ambrogi e
il sottoscritto) scrisse
all’allora direttrice del
Festival del film di
Locarno, Irene Bignardi,
chiedendo di commemorare il
regista e dare un segnale
forte di difesa della
libertà di espressione
proiettando il
cortometraggio
in Piazza Grande,
“invitando alla
proiezione l’autrice della
sceneggiatura nonché tutti
quei nostri concittadini
musulmani che sono a
stragrande maggioranza
difensori della libertà”. La
risposta fu negativa.
Dapprima si accamparono
motivi di sicurezza e poi si
disse – ma la cosa venne
successivamente smentita dal
Corriere della Sera -
che il produttore
aveva ritirato il film.
Se lo scopo dell’assassino
di van Gogh e dei i suoi
mandanti indiretti ( cioè
gli islamisti che - Corano
alla mano - predicano l’odio
contro l’Occidente in buona
parte delle moschee europee
quasi tutte in mano ai
Fratelli musulmani e ai
salafiti ) era quello di
terrorizzare chiunque
volesse criticare l’Islam e
assestare così un duro colpo
alla libertà di espressione,
tale obiettivo in quel caso
fu raggiunto.
Pochi giorni fa una persona
di Basilea che ha appreso la
notizia della prossima
votazione ticinese
sull’iniziativa antiburqa
grazie a un servizio apparso
sulla Weltwoche del 15
agosto, mi ha scritto
esprimendo l’augurio che
l’iniziativa venga accolta e
mi ha inviato un suo
libretto edito nel 2010
intitolato “Die
talibanisierte Schweiz im
Jahre 2022”. Un libretto
assai critico verso l’Islam.
Heidi Hué : questo il nome
dell’autrice che figura sul
libro e che ha firmato la
lettera che ho ricevuto. Ma
l’interessata mi ha
precisato che si tratta di
uno pseudonimo . “Se avessi
firmato con il mio vero nome
– ha aggiunto – sarei in
pericolo di vita qui
nell’ormai ampiamente
islamizzata Basilea”.
Ecco a che punto siamo
arrivati , grazie anche a
quei politici “politicamente
corretti” che per ignoranza,
o ingenuità o interesse
corteggiano gli islamisti e
difendono i loro simboli di
oppressione della donna (
come il burqa ma anche il
semplice velo)
tacciando di
islamofobi e razzisti coloro
che invece, prendendosi
magari qualche rischio, si
battono per cercare di far
aprire gli occhi alla gente
sui pericoli per l’Occidente
di
un’ideologia
totalitaria (che nel museo
della Storia sta prendendo
il posto del nazismo e del
comunismo),
razzista, sessista,
misogina,
cristianofoba,
ebreofoba ed omofoba ( a tal
proposito segnalo
l’illuminante articolo del
gesuita egiziano Samir
Khamil Samir pubblicato nel
Giornale del Popolo del
23 agosto scorso) .
Ho pensato a questi due
episodi quando in questi
giorni ho letto che per
giustificare l’ammissione al
Festival locarnese di un
film sull’ex-terrorista non
pentito delle Brigate Rosse
, Giovanni Senzani , si è
anche tirata in ballo la
libertà d’espressione. Già,
tanto con Senzani non si
rischia (più) niente. Se i
dirigenti del Festival del
film vogliono veramente
difendere la libertà di
espressione lo dimostrino
l’anno prossimo proiettando
il film “Submission” nel
decimo anniversario
dell’assassinio del regista
van Gogh!
Giorgio Ghiringhelli,
promotore dell’iniziativa
“antiburqa”
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